Bamenda, 7 dicembre 2014.

Fa caldo a Bamenda. E c’è polvere tutt’intorno, siamo vicini all’apice della stagione secca. La città è quasi deserta: è domenica e qui è “ancora” un giorno sacro per i tanti Cristiani. (metto “ancora” tra virgolette perché qui fino ad un secolo fa di Cristiani ce n’erano ancora molto pochi!).

Sono un po’ emozionato, direi agitato: tra poco incontrerò i rappresentanti dei 13 villaggi del Lower Fungom, tra cui molti capi. Avere a che fare con i capi tradizionali non è mai cosa semplice: sono politici ma sono anche uomini sacri. Ad esempio non puoi toccarli, e molto di quel che dicono dev’essere interpretato alla luce delle situazioni micro-politiche della regione, dei loro villaggi, delle loro famiglie, delle società segrete… Insomma, un gran casino.

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Però se vuoi proporre qualcosa in un contesto tradizionale come il Lower Fungom non puoi non iniziare dai capi. Devi informarli prima degli altri e, se non fai così, prima o poi ti ritrovi nei guai: ci sono tanti modi nei quali un capo può far capire che non è contento. Nulla di troppo serio, almeno nella mia esperienza, ma potrebbe significare la fine del progetto o il suo fallimento per “ammutinamento”. Sebbene il Camerun sia per molti aspetti un Paese moderno, l’autorità dei capi-villaggio è ancora significativa, soprattutto nei Grassfields.

Il nostro imperativo è la sostenibilità sociale, e questa in nuce impone tra le altre cose che si seguano le regole locali per “fare le cose”, anche se questo può sembrarci assurdo, contrario ai nostri valori, magari “retrogrado”. Purtroppo non sono in tanti a porsi questa domanda nella cooperazione allo sviluppo

C’è anche Jeff qui con me, il Principal Investigator della ricerca, radicata presso l’Università di Buffalo (NY). Anche lui è agitato, ma lui è sempre un po’ agitato, quindi non lo noto più di tanto. Dovremo parlare con i capi-villaggio del nostro progetto nell’area, da poco finanziato dalla U.S. National Science Foundation, e di come vorremmo che questo progetto di ricerca potesse anche “fare del bene” alle comunità locali. Tra le tante possibilità, vogliamo partire così: diciamo quel che abbiamo in mente e poi apriamoci all’ascolto delle loro proposte. Davvero.

Incontriamo i capi-villaggio in tarda mattinata e, con loro, anche Padre Victor, un prete che conosce molto bene il Lower Fungom e che, a più riprese, ci è stato di grande aiuto. Chi ce l’ha, mette in bella mostra i simboli del potere: cappelli con treccine (li può indossare solo un capo), medaglie e penne sul cappello. Beh, quello lo faccio anch’io: dal 2012 sono ntaam nkung ngun “messaggero del capo di Ngun”, un titolo materializzato nel mio copricapo e nella penna rossa che ci sta sopra. Non indossarlo in presenza del capo del “mio” villaggio, ovvero Ngun, significherebbe una mancanza di rispetto. Quindi lo infilo, e con esso l’autorità che ci si aspetta da me.

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Da sinistra a destra: Jeff Good, Pierpaolo Di Carlo, Ju Wilson (capo di Koshin), Chief Age (capo di Ngun), il capo di Mashi e il capo di Ajumbu. Photo: Nelson Tschongonghei

Ci riuniamo in uno stanzone spoglio, all’interno di uno dei pochi edifici a 4 piani di Bamenda sulla Commercial Avenue, cuore pulsante della città (ma non di domenica!). Parliamo per ore. Vengono vagliate molte proposte di intervento nel Lower Fungom: migliorare la viabilità, aumentare la produttività agricola, sviluppare un sistema di gestione delle acque. Ognuno dice la sua e tutti lo ascoltano. Qualcuno si scalda, e parecchio: tra alcuni dei villaggi ci sono vecchi attriti, e partecipare insieme ad un progetto di sviluppo locale è una sfida. Lo sappiamo bene, e tutto questo va tenuto in considerazione. Ancora non potevo immaginarlo, ma tanto (tanto!!) lavoro nei mesi a venire sarebbe stato indirizzato a trovare modalità discrete e non aliene agli usi locali per minimizzare i rischi di contrasto sia tra villaggi che tra famiglie all’interno dei singoli villaggi. Meno male che negli ultimi anni ho passato tanto tempo in Lower Fungom e ho avuto modo di osservare da vicino come funzionano queste società…

Non prendiamo decisioni ma ci appuntiamo tutto quello che viene detto. Lasciamo aperta ogni possibilità, e chiediamo ai nostri interlocutori di rimanere in contatto con noi per discutere ancora. Il tempo di chiudere il laptop ed entrano di corsa due signore. Ci portano fufu corn e ndjama ndjama e si beve birra: qui si fa così al termine di una riunione come la nostra.

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Pierpaolo Di Carlo

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