Quindi, nel nostro precedente post abbiamo compreso la necessità di conoscere i luoghi e le comunità in cui si va a sviluppare un progetto di cooperazione, in cui si intende, detto in parole povere, “fare del bene”. Già ma come farlo? Quali strumenti usare?
Non è, in realtà, che siano cose particolarmente strane. Ovviamente chi si imbarca a lavorare per ONG o grandi organizzazioni internazionali in progetti di cooperazione viene da anni di studi: economia, antropologia, sociologia e quant’altro.
Ma in fondo, dietro a tutto questo devono esserci un’innata curiosità e la capacità di guardare il mondo senza pregiudizi, non anteponendo la propria visione del mondo a quella delle persone che si vogliono “aiutare”.
“Facile allora” direte voi.
“Insomma mica tanto” risponderei io, e proseguirei dicendo che non mi considero la più chiusa delle persone, eppure anch’io trovo difficoltà nell’indagare le cose, nel mettermi, di mia sponte in situazioni di difficoltà per vedere come ne esco, nel raffrontarmi con luoghi , situazioni e persone del tutto estranee. Insomma quante volte avete viaggiato voi nell’ultimo anno? E intendo viaggiato davvero, non un week-end a Londra o in un villaggio vacanze. Magari da soli? Io non molto, per non dire niente.
“Va bene, grazie della morale – replichereste ancora – però chi lavora nella cooperazione, e di mestiere si va a infilare nei luoghi più disperati del mondo, questi problemi se li sarà lasciati alle spalle no?”
Sicuri? magari avrebbe solo pregiudizi diversi, indosserebbe soltanto lenti diverse rispetto alle nostre, ma che deformano sempre il mondo
“Esempi? Che mica ti possiamo credere così a muzzo” [NdR: si sente che Dario è toscano, vero?]
Ok. La storia dei pomodori in Zambia (video). Ernesto Sirolli, adesso, è una persona molto famosa (uno di quelli molto famosi senza che voi lo abbiate mai sentito nominare), ma negli anni settanta era un giovane cooperante. Un giorno la sua ONG avvia un progetto in Zambia e lui partecipa. Trovano questa stupenda valle, fertilissima, e si stupiscono che i locali non la coltivino. Vi piantano dei pomodori, coi quali sono convinti, potranno sfamare la popolazione del posto. Popolazione del posto che, peraltro, non sembra per niente interessata a lavorare in agricoltura. Ma vabeh, loro tirano avanti anche perchè i pomodori crescono belli, rossi, succosi. Il tempo della raccolta si avvicina e i ragazzi della ONG fremono nell’attesa di gustarli. Una notte, infine, dal fiume vicino escono decine di ippopotami in preda a furia barbara, devastano le coltivazioni, mangiano tutti i pomodori. Distrutti, quelli dell’ONG si rivolgono agli abitanti dei villaggi attorno e gli dicono “ma perché non ce l’avete detto?”. E quelli calmi rispondono. “E voi perché non ce l’avete chiesto?”.
Quindi quello dell’immedesimazione, dell’entrare realmente in una realtà diversa non è solo un problema dell’uomo medio seduto sul suo divano. Sirolli ha coniato un’espressione forte e chiara per identificare come si fa questo lavoro “Shut up and listen!”, ovvero “Stai zitto e ascolta!”.
A questo problema poi si aggiunge il fatto che chi finanzia questi progetti vuole vedere dei risultati tangibili: una scuola, un’infermeria, un sistema di tubature che convogli l’acqua verso comunità che altrimenti ne sarebbero sprovviste.
“Questo ci pare giusto”
Si, ma se vuol dire non curarsi della parte immateriale di un progetto, della storia del luogo e delle tradizioni e della storia locali, così come della storia dei progetti che in quel luogo hanno agito nel passato non è più tanto giusto, poiché questo può portare a costosi fallimenti.
Ad esempio, tu arrivi in Malawi, installi il bellissimo sistema idraulico per portare l’acqua. Dopo un anno il sistema inizia rompersi e delle pompe da te installate ne funzionano poco più della metà. E mentre sei lì che, con i pochi pezzi di ricambio che sei riuscito a trovare, ne stai riparando una, ti volti e ti accorgi che ci sono dei rubinetti identici ai tuoi pochi metri più in là. Chiedi agli abitanti del villaggio cosa siano, e loro ti dicono che sono i relitti di un sistema identico installato da un progetto uguale dieci anni prima. Ora, se tu avessi chiesto, ti fossi informato prima, avresti potuto risolvere i problemi che avevano fatto fallire quel progetto e che stanno facendo soffrire anche te.
“E quindi, la smettiamo con i progetti d’aiuto?”
Beh potrebbe essere un’idea. Una pessima idea, però. Visto anche che mi sembra di aver capito che in realtà il modo di fare progetti che funzionino c’è
“E sarebbe?”
Tipo che tu non arrivi in un posto con le tue bellissime idee e le cali dall’alto su chi ci vive. Ma ti preoccupi prima di immedesimarti, vivendo come qualcuno del luogo. Nulla di incredibile: basta usare gli autobus come la gente normale, provare a imparare la lingua del posto e robe simili. E poi sviluppi un progetto co-creandolo con le persone che dei benefici di quel progetto dovranno godere, rendendole partecipi dello sviluppo, rendendole responsabili delle decisioni su come portarlo avanti e ricevendo da loro feedback continui.
“Esempi, vogliamo ancora esempi. Gli esempi non bastano mai”
Ok, ad esempio se tu volessi sviluppare, mettiamo in Congo un progetto che possa fare qualcosa per il fatto che nella regione in cui intendi intervenire il 20% dei bambini non arriva al quinto anno d’età a causa di malattie in realtà banali, cosa faresti? Per prima cosa passeresti dei mesi vivendo fra la gente del luogo e facendo interviste utili a capire quali sono le loro i loro bisogni e il modo in cui, abitualmente li approcciano per risolverli. E capiresti allora che offrire una soluzione che abbracci il problema in maniera olistica, da molti punti di vista, sarebbe l’ideale. E allora penseresti a un water-point, un pozzo, banalmente, attorno a cui si possano trovare e una clinica e un consorzio agricolo che offra anche consulenza ai contadini. E poi non svilupperesti quest’idea da solo, ma organizzeresti delle giornate di lavoro con le donne che di questi servizi dovrebbero essere le beneficiarie, e discuteresti con loro di qualunque cosa, da come strutturare il luogo, a come le informazioni dovrebbero essere veicolate dentro la clinica, di come dovrebbero svolgersi i pagamenti e in generale gli scambi di soldi e anche quale dovrebbe essere il logo del progetto.
“E otterresti? Sentiamo”
Che dopo un paio di stagioni i contadini otterrebbero raccolti migliori grazie ai tuoi semi, che nonostante l’estrema povertà dell’area avresti un sacco di clientela e che il luogo sarebbe talmente frequentato che attorno vi sarebbero sorti bar, ristoranti, e altri negozi. Basta?
“Basta Your Domain Name. E quindi voi di Pig For Pikin avete fatto così? Bravi!”
Diciamo di si, più o meno.
“Come più o meno? Avete fatto così si o no?”
Ve lo spiego nel prossimo post?
Dario Landi
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